Se è già di per sé difficile dare un giudizio di valore su un musicista di cui si conosca la produzione completa, o almeno la gran parte di essa, figuriamoci se quel giudizio dobbiamo darlo su un personaggio la cui produzione ci risulta oggi quasi completamente perduta. E di Rodolfo Zanni, benché scomparso in giovane età, sappiamo che la quantità di lavori effettivamente scritti fu notevole, stando alle testimonianze dell’epoca, testimonianze autorevoli, di indubbia credibilità, come accennato nell’articolo di Giuseppe Zanni. È come se di Beethoven ci fossero rimaste oggi solo delle testimonianze dell’epoca in cui visse, attestandoci quantità e qualità delle opere prodotte, mentre si fosse persa con la sua morte tutta la musica, ad eccezione di tre o quattro contraddanze e, sulla base di queste, si dovesse formulare un giudizio moderno.
In questa ipotesi immaginaria non ho scelto a caso il genere delle contraddanze, un genere minore e leggero all’epoca: è che di Rodolfo Zanni, a fronte di una produzione di sinfonie, balletti, ouverture, opere liriche, musica per cinema, ci sono oggi noti solo i canti La campiña adormencita, Soleil couchant, Rememora, e l’inno Italia Nova, una piccola porzione che appartiene tutta al genere più o meno «leggero». Viene in mente quel processo tutto moderno di trasformazione dello statuto dell’opera d’arte, da unica e irripetibile a oggetto riproducibile e di uso quotidiano, lucidamente analizzato da Walter Benjamin (L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936). In musica questa non è una novità assoluta, ma relativa, sin dal Rinascimento, con la nascita e l’evoluzione della stampa musicale. Tuttavia, con il genere leggero la riproducibilità tecnica si fa più immediata, per le proporzioni ridotte e il basso grado di complessità di scrittura delle opere stesse, nonché per il loro potenziale di diffusione, che rende loro un valore di mercato molto più apprezzabile, almeno nell’immediato, rispetto all’opera di genere più aulico. I quattro titoli di Zanni si sono salvati proprio perché hanno avuto la sorte di accedere a un settore della stampa musicale dedita al leggero, visto che per la giovane età l’autore stava ancora attendendo di poter pubblicare la sua produzione maggiore con un editore classico di prestigio.
Ma possiamo considerare ciò che ci è rimasto alla guisa di una figura di sineddoche, di una parte rappresentativa del tutto? Direi tendenzialmente di no, così come l’opera di Beethoven sarebbe scarsamente rappresentata unicamente da qualche contraddanza.
Le quattro composizioni di Rodolfo Zanni non sono neanche la punta di un iceberg, sono solo un angolo interno poco rappresentativo. Tuttavia, se non possono ambire alla piena rappresentatività stilistica dell’autore, possono certamente essere utili come riferimenti per una valutazione di compatibilità rispetto ai più che lusinghieri giudizi che diedero autorevoli commentatori contemporanei del musicista sulla sua produzione più importante. Una compatibilità che mi pare alquanto evidente. Il micro-mondo di quei quattro canti sembra comunque disegnato da una mano che, pur nei solchi della tradizione, ha tratti di originalità propria in virtù della loro funzionalità formale e di supporto al testo letterario: giochi di scale esatonali, intervalli melodici dissonanti, giustapposizioni e accavallamenti di armonie appartenenti ad aree tonali molto distanti tra loro, sovrapposizioni di intervalli particolari, come quarte e quinte vuote, repentine modulazioni a toni lontani e altro ancora. Certamente vi si ravvisano gli echi della Giovane Scuola italiana, così come di certi colori francesi, ma v’è senz’altro un che di originale, forse anche di ardimentoso, tipico di un giovane spirito libero e, perché no, con qualche nota naïf.